Sono nato a Palermo nel ’41 – gennaio ’41- e la guerra era iniziata da un pezzo, ma io non ricordo nulla di quei miei primi anni di vita, passata tra bombardamenti e stenti di ogni genere. Eppure la guerra, quella guerra infame, mi ha segnato profondamente. E non solo per quello che, ultimo di sette figli, ne ho capito dai racconti che mi facevano i miei fratelli più grandi, quelli che, per età in qualche modo ne erano testimoni. Ma perché sopravvivere alle privazioni di quegli anni era un’impresa, specie per un bimbetto gracile com’ero io, appena venuto al mondo: un mucchietto di ossa, mi raccontavano i miei fratelli, come fosse una colpa, peggio, un peccato originale. Ma loro non dicevano sul serio, loro scherzavano, non facevano altro, forse per meglio resistere alle incredibili “cattiverie” che la guerra, quella guerra, ci propinava senza pietà ogni giorno, ogni minuto della nostra vita difficile.
Era un continuo: mi sfottevano senza tregua, perché io ero un pischelletto, uno che si poteva spazzar via con un soffio, perché io non disponevo neanche degli strumenti essenziali per la difesa personale, perché non c’era abbastanza cibo per tutti ed era fatale che a farne le spese non potevo che essere io, il più debole. L’unico davvero incapace di abbozzare una strategia difensiva e, stando così le cose, non sarei “durato” a lungo su questa terra se non mi avesse protetto, qualche volta disperatamente protetto, quella santa donna di mia madre, che declinava una legge eterna per tutte le madri della terra: cioè quella di compensare dei torti subiti da tutti gli altri, fratelli compresi, il figlio più debole, più bisognoso. La mamma, qualsiasi mamma degna di questo nome, non ha mai dubbi in merito e fa sempre la scelta giusta. Lei sapeva che i miei fratelli mi strappavano con la forza il boccone che lei mi aveva riservato e, per questo, me ne custodiva sempre uno di riserva. E così, io riuscivo ad andare avanti, magro, emaciato, esangue e anemico ma vitale, sprizzavo vitalità da ogni poro perché, se pure mi feriva vedere il mio fratellone prediletto (o quasi: in verità li amavo tutti e sei alla follia) divorarsi anche la mia minestra di pasta e fagioli (la mia preferita allora, la mia preferita anche oggi) dopo essersi mangiata la sua e, magari, ridacchiare per tutta risposta alle mie proteste disperate, io non versavo una lacrima ch’era una perché sapevo – ne ero certo – che sentendo i miei strilli sarebbe accorsa lei con un altro piatto fumante. Che poi era la sua porzione, cui rinunciava con una calma olimpica, come la cosa più naturale del mondo. Che naturale, invece, non era perché patire la fame è il flagello peggiore cui l’uomo possa essere costretto. Un flagello che, in quegli anni, senza esclusioni di sorta, colpì l’Italia intera, dal nord al sud, isole comprese.
Ma dicevo pocanzi di non ricordare nulla della guerra ed è così; ero troppo piccolo, non m’è rimasto neanche un frammento di quello sfacelo, di soldati in fuga e camionette rombanti: nulla. Quel che mi è rimasto, invece, è l’eco che quella guerra mi ha lasciato nel profondo della memoria, che non è solo una sequenza di flash, tipo “clic” fotografici; non è solo una serie di episodi, aneddoti, fatti e fattacci, rubricati, incasellati nel fantastico “puzzle”, come uno scrigno d’oro, del passato, del vissuto di ciascuno di noi.
E tuttavia anche se su questo versante, non sono in grado di rendere alcuna testimonianza, posso però affermare con assoluta certezza che quegli anni dolorosi mi si sono attaccati alla pelle, al sangue, all’ossigeno del mio cervello, insomma all’anima mia, come una mignatta, uno stampo, un marchio e se sono quel che sono molto “spetta” a quegli anni là, quelli della guerra, che mi videro bimbo gracile, esangue, anemico e pur tuttavia ebbro di vita.
Una fame di vita che non finiva mai: l’avessero i bimbi di oggi, chissà dove arriverebbero da grandi con tutte le delizie, tecnologiche e non solo, che i tempi odierni mettono doviziosamente a loro disposizione.
Noi, ragazzini di quel dopoguerra, non avevamo nulla se non la nostra famelica fantasia, la nostra insaziabile voglia di vivere: in pratica, nulla; nell’immaginario collettivo dei tempi, una ricchezza senza limiti e senza confini. Eppure non finirò mai, campassi cent’anni, di maledire quella guerra, che ci ridusse allo stremo delle forze e della sopravvivenza, anche se ci insegnò che senza sacrifici nulla si ottiene nella vita. E se sono come sono, lo devo a quei tempi duri, a quella palestra di vita spartana e implacabile, che mi ha insegnato a lottare per raggiungere la meta e a non arrendermi mai. E a non aspettare che siano gli altri a darmi una mano, se prima non me la sono data da solo fino all’ultimo respiro. Se sono come sono lo devo all’esempio di abnegazione lasciatomi da mia madre, che da sola governava una famiglia di nove persone, sette figli scatenati e un marito artista che, in quanto tale, si credeva al di sopra di certe “minuterie” da piccolo borghesi, tipo la scuola dei figli, i professori che vogliono parlare con il papà, i soldi della spesa che non bastavano mai. Lui, un artista con la “A” maiuscola, non poteva correre il rischio di inaridire la sua ispirazione, il suo “magic moment”, la sua atarassica pace interiore come preparazione psicofisica al prossimo concerto per violoncello ed orchestra; lui, dicevo, doveva pensare ai suoi fantasmi interiori, quelli giusti per fargli eseguire “da dio” le suites di Bach o il concerto di Anton Dvorak, ovvero i due immancabili capisaldi del grande violoncellista.
Eppure, che gran popolo è venuto fuori da quella guerra, un popolo capace di rialzare la testa, come ho fatto anch’io nel mio piccolo, che ancora, per via dei postumi di quei traumi, se solo arrivano alle mie orecchie i colpi di tuono dei giochi d’artificio, quelli delle feste di Santa Rosalia, vengo preso dal panico. Mi rimbomba la testa, me la sento scoppiare e sento irrefrenabile il bisogno di fuggire lontano, correre più veloce possibile, finché non si spengono quei rimbombi micidiali. E la paura è tale, in quei momenti, che non connetto più, mi sento perso e capisco che altro non sono che l’eco funesta dei bombardamenti. E mi sembra, in quei momenti terribili – ma è solo una sensazione – di vedermi ravvoltolato in una coperta, tra le braccia di mia madre che corre trafelata verso il rifugio più vicino.
p.s.
Quello che i miei fratelli mi toglievano quand’ero bambino me l’hanno restituito, e con gli interessi, da grande, perché per loro sono sempre rimasto, anche oggi che ho i capelli bianchi, “u picciriddu ra casa”: quattro di loro sono saliti in cielo e da lì ancora mi prendono in giro. Se li adoravo quando mi “torturavano” pensate un po’ come li ho amati dopo.
Su mio padre, infine, devo aggiungere un dettaglio essenziale: non mi fece mai una carezza da vivo (non ne fece mai a nessuno) ma me ne fa tante da quando non c’è più perché è lui a indicarmi sempre la strada giusta…